Riflessione dell’Abate Luca per vivere bene la Solennità di s.Benedetto
In preparazione alla Solennità di San Benedetto, martedì 11 luglio, l’Abbazia di Montecassino, ha proposto per lunedì 10 un momento di riflessione sul cammino sinodale della Chiesa e l’esperienza spirituale di san Benedetto, guidato dall’Abate Luca.
Dopo i Primi Vespri iniziati alle ore 18.00 nella Basilica Cattedrale, ci si è spostati nella sala San Benedetto dove alle 19.00 l’Abate Luca si confrontato con i presenti dopo la Sua prolusione di cui riportiamo il testo integrale.
L’esperienza spirituale di san Benedetto
e il cammino sinodale della Chiesa
Montecassino, 10 luglio 2023
Vigilia della solennità di san Benedetto
Per una spiritualità sinodale
Siamo entrati nel pieno della fase sinodale, tanto per ciò che riguarda la Chiesa universale, quanto per ciò che concerne la nostra Chiesa italiana. Sabato scorso la Sala stampa vaticana ha diramato l’elenco di coloro che, a vario titolo, parteciperanno all’assemblea del Sinodo dei Vescovi, di cui è giù stato reso noto lo ‘strumento di lavoro’ lo scorso 20 giugno. Siamo invece entrati, o stiamo entrando nella seconda fase del cammino sinodale della Chiesa italiana, definita fase sapienziale, perché dopo l’ascolto al quale è stata dedicata la prima tappa, si tratta adesso di operare un discernimento, per poter giungere, nella terza fase, quella profetica, ad assumere decisioni concrete per ridisegnare il volto della nostra Chiesa.
Al di là di questi cammini più puntuali e particolareggiati, c’è comunque una stagione nuova che la Chiesa sta vivendo, e che potremmo definire davvero stagione sinodale, nella quale il camminare insieme, dialogando, confrontandosi, aiutandosi nei discernimenti da compiere, e valorizzando i diversi carismi che lo Spirito dona alla Chiesa, assume una rilevanza centrale, molto maggiore rispetto al passato. O, quanto meno, questo è il desiderio, o l’augurio, l’auspicio, che ci abita in questo momento; poi si tratterà di capire bene cosa davvero riusciremo a cambiare, e come questa sinodalità si tradurrà di fatto in percorsi concreti, in attuazioni effettive.
C’è il noto proverbio che afferma che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Don Luigi Verdi, il fondatore e l’animatore della comunità di Romena, dice piuttosto che tra il dire e il fare di mezzo c’è il cominciare. Si tratta di cominciare, di iniziare dei percorsi nuovi.
Leggendo i nomi dei partecipanti al sinodo dei vescovi, c’è un elemento che mi ha sorpreso e interrogato. Sapete che è stata data molta enfasi, soprattutto a livello di stampa e di informazione, alla presenza di alcune donne e al loro diritto di voto. A me ha sorpreso però un altro fatto: che tra i partecipanti ci siano due figure che sono state definite ‘assistenti spirituali’.
Un uomo e una donna: padre Timothy Radcliffe, domenicano, già Maestro dell’ordine dei Predicatori, e madre Maria Ignazia Angelini, monaca benedettina, già abbadessa del monastero di Viboldone. Cosa significa la loro presenza nel Sinodo, quale il loro compito? Non so bene, credo che debbano animare alcune giornate di ritiro spirituale prima che inizino i lavori veri e propri, e anche, durante le assemblee sinodali, offrire ogni giorno qualche spunto di meditazione.
Al di là del loro compito concreto, mi pare importante che si sia avvertita questa esigenza: anche un lavoro sinodale, in cui si è chiamati a discutere, confrontarsi, delineare prospettive, esiga comunque di farlo dentro un orizzonte che è e deve rimanere spirituale, aperto e docile cioè all’azione dello Spirito. Se l’archetipo di ogni incontro sinodale è il cosiddetto Concilio di Gerusalemme di cui Luca parla al capitolo 15 egli Atti, questo significa che ogni sinodo dovrebbe giungere a poter dire, come fa la comunità radunata a Gerusalemme, «abbiamo deciso noi e lo Spirito Santo».
Il noi ecclesiale è sempre un noi che interagisce con l’azione dello Spirito Santo. Ma questo più concretamente significa che è un noi che vive una maturità spirituale, che deve però essere sempre nutrita, custodita, fatta crescere. Detto in altri termini, l’esperienza sinodale non può prescindere da alcuni atteggiamenti spirituali che dobbiamo assumere, sia personalmente sia comunitariamente.
Di conseguenza mi sono anche chiesto come un’esperienza spirituale concreta, quale quella vissuta da san Benedetto, e che poi egli consegna alla Chiesa, e non solo a noi monaci, attraverso la sua Regola, possa educarci a vivere quelle trasformazioni necessarie che ci permettano di essere sempre più una Chiesa sinodale. Se la sinodalità ha bisogno anche non solo di metodi, di regole, di discussioni, di documenti, ma anche di atteggiamenti spirituali, cosa l’esperienza monastica può dire? Quali atteggiamenti spirituali può educare e formare?
Il fatto che uno dei due assistenti spirituali scelti per il prossimo sinodo dei vescovi sia una monaca benedettina mi pare segnali anche questo elemento, che come monaci deve interrogarci, e che può poi, attraverso di noi, interrogare l’intera comunità cristiana. Come la tradizione spirituale benedettina può aiutarci ad assumere degli atteggiamenti veramente sinodali? È a partire da queste domande che vorrei condividere con voi qualche semplice pensiero, nella speranza che sia di aiuto ai vostri cammini personali, familiari, associativi, ecclesiali.
Quattro specie di monaci
Quando, nell’ambito di una riflessione sulla sinodalità si pensa a san Benedetto e alla sua Regola, si cita sempre, a proposito e qualche volta a sproposito, il capitolo terzo della Regola. Ed è giusto che sia così, perché è un capitolo importante, anzi decisivo, dal quale ogni esperienza sinodale può ricevere molto. Tuttavia, siccome di questo capitolo si è parlato molto, io vorrei lasciarlo sullo sfondo, perché mi pare che nella Regola di san Benedetto ci siano molti altri elementi interessanti e utili a tratteggiare quella che potremmo definire una “spiritualità sinodale”. Vorrei in particolare fare riferimento a tre capitoli: il primo, il quarto e il settantaduesimo.
Al capitolo primo Benedetto afferma che vi sono quattro specie di monaci: quella dei cenobiti, quella degli anacoreti o eremiti, quella dei sarabaiti e quella dei girovaghi. Benedetto dichiara di voler occuparsi dei cenobiti, per i quali intende scrivere la sua regola, ed è, quella cenobitica, una forma di vita necessaria anche per coloro che intendono abbracciare la vita solitaria, anacoretica o eremitica: prima devono formarsi e addestrarsi al combattimento solitario nel deserto attraverso una prolungata prova nella vita comunitaria.
Invita invece a tenersi lontani dalle altre due forme, quella dei sarabaiti (termine che non è né latino né greco, probabilmente è di origine copta, e Benedetto lo riprende da Cassiano) e quella dei girovaghi. Nel tenore di vita di queste ultime due categorie di monaci possiamo discernere atteggiamenti interiori e stili comportamentali che compromettono un sincero cammino sinodale.
I sarabaiti sono coloro che nessuna regola ha provato con il tirocinio dell’esperienza, vivono in loro proprie dimore e hanno come legge l’appagamento del proprio desiderio. «Dicono santo tutto ciò che concorda con il loro pensiero e le loro scelte, ritengono illecito ciò che non vogliono» (RB 1,9). Qui viene dunque stigmatizzato un atteggiamento individualista e autoreferenziale. L’attitudine sinodale esige invece la disponibilità a uscire dalle «proprie dimore» per aprirsi a uno sguardo diverso dal proprio.
È necessario pertanto lasciarsi educare da una regola e dal tirocinio dell’esperienza: è cioè la perseveranza, il rimanere dentro le differenze e le conflittualità che esse sempre determinano, senza evaderne o fuggirne o chiudersi dentro i propri preconcetti, a rendere più aperto e flessibile l’incontro e il confronto con la diversità. Non è un’attitudine che si impara lavorando semplicemente su se stessi, giacché matura solamente nello spazio sempre destabilizzante e faticoso delle relazioni.
I girovaghi sono invece coloro che «vagabondano per tutta la vita… sempre erranti, senza alcuna stabilità, schiavi delle loro voglie e degli allattamenti della gola: sono in tutto peggiori dei sarabaiti» (RB 1,10-11). In qualche modo, con questa quarta specie di monaci cadiamo nel rischio opposto a quello dei sarabaiti, anche se ad accomunarli c’è una radice comune: la schiavitù da se stessi, dai propri desideri e modi di pensare. Se, tuttavia, nel caso dei sarabaiti la tentazione era quella di rinchiudersi dentro i propri schemi e le proprie visioni, in questo secondo caso si è tentati di vagabondare senza trovare una stabilità e dunque neppure una identità.
I girovaghi vagabondano da un monastero all’altro, da una comunità all’altra senza fermarsi in alcun posto; allo stesso modo possiamo cedere a un atteggiamento che ci conduce continuamente a peregrinare da un’idea all’altra, da una decisione all’altra, senza riuscire a conferire un orientamento stabile e una coerenza di fondo alla propria ricerca e alle proprie scelte. La sinodalità autentica ha bisogno invece tanto di una capacità di ascolto e di confronto, quanto di una coerenza nell’assumere responsabilmente degli itinerari e di percorrerli con fedeltà. Occorre quindi evitare tanto la fissità di una chiusura rigida quanto lo smarrimento di una erranza inconcludente.
A questi due rischi la tradizione benedettina oppone il modello cenobitico di chi vive stabilmente in un monastero, prestando servizio sotto una regola e un abate. Possiamo anche in questo caso assumere più simbolicamente il modo con cui Benedetto tratteggia il profilo del cenobita, fornendoci tre coordinate fondamentali: il monastero, la regola, un abate. Ogni cammino sinodale ha bisogno di questi tre riferimenti: anzitutto un luogo, che evoca una dimensione spazio-temporale. Ogni monastero, ogni comunità, così come ogni luogo, è collocato in un tempo e in uno spazio.
C’è dunque un principio di incarnazione e di adesione alla realtà: un cammino sinodale per essere autentico ha bisogno di incarnarsi con fedeltà e creatività dentro un tempo, uno spazio, in un contesto, in una cultura, in una storia, affrontando le sfide e le problematiche che vengono sollevate da tutti questi ambiti, diversi ma sempre tra loro intrecciati. C’è bisogno poi di una regola, dunque anche di un metodo. Non c’è sinodo senza metodo: si tratta di due termini che significativamente sono costruiti sulla stessa radice odos che significa per l’appunto via, cammino.
Per camminare insieme occorre condividere dei criteri, dei principi e delle norme. Infine, un terzo riferimento che la regola di Benedetto propone guarda all’abate: c’è dunque anche un riferimento personale. Non bastano dei criteri oggettivi, quali i principi, i valori, le norme, i metodi, se con c’è un principio personale, soggettivo, in grado di interpretarli, mediarli, adattarli alle diverse situazioni, contesti, avvenimenti. Ogni cammino è sempre costituito dall’intreccio di un itinerario che viene prima pianificato, ma poi si imbatte in tanti imprevisti e contrattempi che richiedono di volta in volta di rielaborare il percorso, come sa fare un bravo navigatore digitale, che ricalcola la strada da seguire. Dunque, è sempre necessaria l’opera personale di qualcuno, o di un gruppo di persone, in grado di mediare l’orientamento verso una meta precisa con le situazioni concrete nelle quali il cammino si inserisce e si incarna.
Mi pare dunque che, parlando dei cenobiti, in un contesto nel quale essi devo prendere le distanze e vigilare sulle tentazioni rappresentate tanto dai sarabaiti quanto dai girovaghi, la Regola di Benedetto offra questa preziosa indicazione: è necessario intrecciare insieme questi tre fili, il filo di un contesto spazio-temporale che evidenzia un principio di incarnazione e di adesione al primato della realtà, che è sempre superiore all’idea; un filo metodologico che sa avvalersi di criteri oggettivi e di percorsi tracciati con sapienza; infine un filo personale che impedisca di assolutizzare quei criteri e quei metodi che, per quanto necessari non sono mai assoluti, non sono cioè sciolti da un contesto, in modo da renderli flessibili e adattabili agli imprevisti che ogni cammino autentico incontra. Altrimenti non è un cammino storico e corporeo, ma è solo un percorso ideale o immaginario.
La scala dell’umiltà
Un altro capitolo importante è il settimo, nel quale Benedetto propone l’immagine della scala di Giacobbe per disegnare il cammino dell’umiltà come atteggiamento spirituale fondamentale. Sintetizzerei questo itinerario spirituale nell’attitudine a camminare diminuendo, ma in un contesto relazionale. È il diminuire non di chi vive uno sforzo ascetico per reprimere o dominare atteggiamenti di superbia, di orgoglio, di potere, di imposizione di sé, ma è il diminuire di chi sa fare spazio all’altro e sa vivere la fatica di un ‘fare lasciando fare’. Per Benedetto la scala dell’umiltà ha al suo vertice, che è un vertice capovolto, poiché lo si raggiunge scendendo e non salendo, la figura del pubblicano descritta dalla celebre parabola di Luca 18, il quale, diversamente dal fariseo, non fa affidamento su quanto egli è in grado di compiere, ma su quello che la misericordia di Dio realizza in lui.
Benedetto ha però un’aggiunta significativa giacché, dopo aver fatto riferimento alla parabola lucana, cita anche la prima lettera di Giovanni: percorrere i gradini della scala dell’umiltà consente di giungere a quella carità di Dio, a quell’amore che, in quanto perfetto, caccia via il timore, vince ogni paura. L’umiltà è autentica quando conduce alla carità, e una forma alta di carità consiste proprio non in ciò che io faccio per l’altro, ma in ciò che consento all’altro di fare.
È l’amore che si esprime nel fare lasciando fare, dunque dando spazio, aprendo davvero cantieri in cui collaborare insieme, individuando strade lungo le quali camminare l’uno a fianco dell’altro, che è la cosa più difficile, perché ci è più spontaneo, più facile e immediato o precedere o seguire, ma affiancare, camminare l’uno al fianco dell’altro, l’uno al passo dell’altro, è impresa non facile, è impegno arduo, che chiede ascolto, vigilanza, molta attenzione, non solo all’altro, ma anche a se stessi.
Lo zelo buono
Infine, mi pare fondamentale il penultimo capitolo della Regola, il capitolo settantadue, che offre gli ingredienti fondamentali per una spiritualità sinodale, che san Benedetto definisce zelo buono. Mi limito, di questo testo molto ricco, che andrebbe meditato integralmente, a sottolineare l’espressione «tutti insieme» con cui il capitolo si conclude. La Regola di Benedetto inizia con un dialogo personale: si rivolge a un «tu». «Ascolta, o figlio» è l’imperativo con il quale nel Prologo la Regola si apre. C’è il «tu» di una relazione personale. Alla fine troviamo il «tu» che è diventato un «noi»: tutti insieme.
Il percorso sinodale dovrebbe essere anche questo: un itinerario che consente a tanti «tu» diversi di diventare un «noi». E questo è un itinerario pasquale. Vorrei leggere a questo proposito il passaggio di una riflessione che l’Abate generale dei Cistercensi, padre Mauro Lepori, ha offerto al Capitolo generale dei Trappisti, il10 febbraio dello scorso anno ad Assisi, proprio sul tema «sinodalità e comunione».
…la comunione chiede il passaggio dall’io al noi, un passaggio in cui l’io deve morire per risorgere. Non si diventa “noi” solo per addizione, ma attraverso una trasformazione pasquale. L’io non diventa un “noi” semplicemente addizionando altri io al mio io, come aggiungendo altre monete alla moneta che ho. Infatti, Gesù ha scelto la parabola del chicco di grano per spiegare come si passa dall’io al noi: “In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.” (Gv 12,24-25)
Gesù ricorda che la fecondità consiste nel “non rimanere soli”, nel diventare un “noi”. Non si è fecondi se si è forti, belli, intelligenti, numerosi. Si è fecondi se si vive la comunione. Chi pensa di amare la sua vita amando il proprio individualismo, il proprio comodo, il proprio guadagno, il proprio interesse, la propria gloria, la perde. Per questo Gesù ci chiama letteralmente ad “odiare”, non tanto la vita, ma l’immagine falsa, egocentrica e autonoma della vita che ci portiamo dentro a causa del peccato.
La comunione fa paura perché implica la morte a se stessi. Quando Giovanni scrive nella sua prima lettera: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1Gv 3,14), in realtà ci fa capire che perché l’amore fraterno ci possa far passare dalla morte alla vita è necessario morire alla falsa vita di amare noi stessi.[1]
Questa esperienza pasquale, che fa del cammino un passaggio dalla morte alla risurrezione, può essere vissuta, afferma Benedetto nella Regola, se non anteponiamo nulla all’amore di Cristo. Occorre però chiarire che Benedetto intende questa espressione, che riprende dal commento al Padre Nostro di Cipriano di Cartagine, anzitutto come l’amore con il quale Cristo ci ha amati fino a donare la sua vita per noi. Dunque, è a questo amore pasquale che nulla va anteposto, ed è l’assumerlo come il respiro della nostra vita a consentirci di vivere il passaggio pasquale dall’io al noi.
Papa Francesco, nel suo discorso per il 50 anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, ha affermato che Chiesa e sinodo sono sinonimi. Possiamo però precisare che sono sinonimi non tanto nel senso che coincidono staticamente, sovrapponendosi l’una realtà all’altra, ma nel senso che tra di esse deve sussistere sempre una tensione dinamica: la Chiesa diventa veramente se stessa attraverso un cammino sinodale che comporta un passaggio pasquale dall’io al noi, e dall’altro canto il cammino sinodale è autentico quando consente questo passaggio pasquale che genera la Chiesa e la custodisce in vita, in buona salute, per così dire.
Il non anteporre nulla all’amore di Cristo diventa allora non soltanto il cuore di un’esperienza spirituale personale, ma anche il principio o il fondamento della comunione ecclesiale. Ne consegue che solo nel riconoscimento di questo primato può essere vissuto nel giusto modo un cammino sinodale. Il non anteporre nulla all’amore di Cristo, infatti, consente poi di vivere quegli atteggiamenti indispensabili per camminare insieme agli altri, non semplicemente addizionando i propri passi, ma facendoli diventare i passi di una comunione ecclesiale, quella di un solo corpo che può riconoscere davvero di avere come capo Cristo solo se riconosce di dover rimanere e camminare nel primato del suo amore.
Discernere insieme il rivelarsi del Signore
Non posso però concludere questa riflessione senza fare almeno un cenno al capitolo terzo, che ho volutamente lasciato sullo sfondo, come ho dichiarato nelle premesse, ma che merita comunque una qualche attenzione.
È un capitolo che presenta elementi di novità, rispetto ad altre regole monastiche dell’epoca, e soprattutto nei riguardi della fonte più immediata di san Benedetto, che è la cosiddetta Regola del Maestro. Quest’ultima dedicava una breve sezione alla convocazione dei fratelli in consiglio, alla fine del capitolo secondo, interamente consacrato alla figura e al servizio dell’abate.
San Benedetto si distacca da questa impostazione e decide di dedicare al tema un capitolo a parte, il terzo appunto, dando così maggiore rilievo alla prassi capitolare, che non rimane più, come nella Regola del Maestro, un elemento organizzativo e pratico, ma assume un valore più teologale: non si tratta tanto di prendere decisioni, quanto di discernere ciò che il Signore rivela anche attraverso il fratello più giovane. È questo un elemento innovativo, che avrà poi grande incidenza nella storia successiva, e non solo dentro i monasteri.
Quindi, il la riunione in capitolo è un luogo eminente in cui una comunità monastica esercita quel discernimento comune che è indispensabile per camminare insieme. Nello stesso tempo è possibile, anzi necessario, rovesciare la prospettiva: è il camminare insieme, che una comunità vive in tutti i diversi e variegati ambiti della sua vita, che poi consente di operare, in capitolo, degli autentici discernimenti comunitari. Qui, mi pare, possiamo trovare un altro apporto peculiare, tipico, che una comunità monastica può custodire e offrire all’intera comunità cristiana.
Quella monastica è una comunità stabile, nel tempo e nello spazio, dove l’essere syn-odoi, cioè compagni di viaggio, compagni di strada, secondo la bella espressione che troviamo nella lettera di sant’Ignazio di Antiochia agli Efesini (cf. IX,1-2)[2], lo si sperimenta in ambiti molteplici della vita, e non solo quando ci si raduna insieme in capitolo o in altri luoghi di dialogo, di confronto, di decisione. Pensiamo all’importanza che questo syn ha nelle lettere di san Paolo. In Filippesi Paolo afferma che occorre con-lavorare (1,27; 4,3); in 1 Cor 12,26 parla del con-soffrire; in Fil 2,17 del con-gioire; in Rom 15,32 del con-vivere.
È dentro questo ‘con’ quotidiano e feriale che matura la possibilità di un discernimento comune. Un’autentica sinodalità non può ridursi soltanto agli strumenti o agli ambiti delle riunioni, dei consigli, delle decisioni collegiali. Tutto questo è importante, ma trova la sua possibilità e la sua condizione dentro un effettivo camminare insieme in quella che è una pratica più quotidiana, ordinaria, fatta dalla condivisione, sia a pure a livelli diversi, della vita. Se il discernere e il decidere insieme non affondano le proprie radici in questo terreno comune, rischiano di rimanere formali, non effettivi, faticosi, complicati. È evidente che la forma tipica di vita stabile di una comunità monastica non può essere riprodotta tale e quale in altri ambiti della vita ecclesiale.
Tuttavia una comunità monastica, proprio a partire dalla sua esperienza vitale, può offrire questa indicazione alla vita più ampia della Chiesa: porre grande attenzione a queste dimensioni quotidiane, semplici, basilari, di un cammino condiviso, che poi nutrono e plasmano quei momenti in cui è necessario radunarsi insieme, nelle varie forme possibili, per operare discernimenti comunitari e giungere, se necessario, a scelte determinate. Dobbiamo essere consapevoli che i linguaggi autentici della comunione non nascono e maturano soltanto dentro i luoghi deputati al dialogo e al confronto.
Nascono e maturano prima e altrove, nell’esperienza concreta e feriale di una vita condivisa. Nel pregare insieme, nel celebrare insieme, nel riconciliarsi insieme, nel lavorare insieme, in un insieme che ha bisogno anche di un altro termine caro a san Paolo, in greco allèlon, che significa fare tutto nella reciprocità: pregare gli uni per gli altri, perdonarsi gli uni gli altri, consolarsi e sopportarsi vicendevolmente, e così via (gli esempi in Paolo si moltiplicano).
Il Signore rivela ciò che è meglio
Il linguaggio della comunione, che si apprende così, in una vita condivisa nella reciprocità, trova poi un luogo significativo di espressione quando ci si riunisce in capitolo. È l’abate che lo convoca, non solo perché non deve decidere se non dopo aver ascoltato il consiglio di tutti, ma perché in questo modo esercita la sua paternità, che è tale in quanto chiamata a generare una fraternità, o meglio a essere segno di quella paternità di Dio che, generandoci come suoi figli, ci chiama al vincolo reciproco della fraternità.
Ciò che deve stare a cuore a chi presiede la comunità è proprio favorire il più possibile il dialogo fraterno, che tutti siano messi in condizione e formati a parlare e ad ascoltare, e che questo dialogo abbia come fine non l’imposizione di un proprio parere (o quella che san Benedetto definisce la voluntas propria, la propria volontà personale), ma il discernimento di ciò che il Signore rivela, sapendo peraltro che ciò che il Signore sempre manifesta è il dono della comunione; una comunione però non ideale o astratta, ma che si incarna nei sentieri a volte faticosi, impervi, dell’ascoltarsi, del confrontarsi, addirittura dello scontrarsi nel gioco dei differenti punti di vista, che non mancano mai. Compito di chi convoca e presiede è essere principio di quella comunione che si alimenta e si consolida attraverso il discernimento comune.
Uso il verbo ‘rivelare’ perché è presente nella Regola stessa, ed è un verbo importante, che più di altri narra che cosa sia essenziale in questo radunarsi dei fratelli a consiglio. Il capitolo terzo afferma che «tutti i fratelli siano convocati a consiglio perché spesso a un giovane il Signore rivela ciò che è meglio». Questa affermazione ci ricorda anzitutto che l’avverbio ‘insieme’, implicito nell’idea di sinodalità, va inteso in senso ampio e profondo: conosce una linea verticale oltre a quella più orizzontale. Esige la consapevolezza che Dio stesso cammina insieme a noi, ed è proprio dentro lo sforzo di un cammino condiviso che rivela le sue vie. Né prima né dopo, né accanto né sopra, ma dentro.
L’ascolto della parola di Dio, che è così centrale nella vita di una comunità monastica, tanto nella celebrazione liturgica quanto nella lectio divina personale, rimarrebbe parziale e incompleto se non ci fosse anche questo momento capitolare in cui si torna a discernere questa parola – ciò che appunto Dio rivela – attraverso l’ascolto vicendevole di tutti i fratelli, anche del più giovane. Io credo che il linguaggio sia sempre molto rivelativo, e mi pare interessante che, nel nostro modo consueto di parlare, usiamo il verbo ‘celebrare’, che è un verbo liturgico, anche per dire che celebriamo un capitolo, celebriamo un sinodo. Anche il capitolo di una piccola comunità monastica composta di sette fratelli di voti definitivi, qual è la nostra comunità di Montecassino, è una celebrazione, perché è il luogo in cui la parola di Dio torna a manifestarsi e deve essere accolta, ascoltata, compresa, incarnata.
Parlare come il più giovane
L’utilizzo del verbo ‘celebrare’ ci ricorda anche che la liturgia stessa costituisce un modello di sinodalità, perché articola insieme l’agire comunitario con un agire specifico all’interno della stessa celebrazione. Ci sono dei ruoli, dei ministeri. Tutti celebrano insieme ma non perché tutti facciano la stessa cosa; anzi, l’agire comunitario è reso possibile proprio dal fatto che non tutti fanno tutto, ma ciascuno fa quello che deve fare nel rispetto di ciò che altri debbono fare. Per un agire sinodale occorre una distinzione di ruoli – secondo il classico schema, che è anche uno schema celebrativo-liturgico, del tutti – alcuni – uno: uno presiede, alcuni svolgono dei ministeri, tutti celebrano. E tale distinzione di ruoli deve essere orientata non semplicemente al conseguimento del fine, ma al fatto che il fine venga perseguito attraverso un sincero processo di discernimento comunitario.
La Regola afferma che per questo discernimento comunitario occorre ascoltare tutti, anche il fratello più giovane. Possiamo però capovolgere lo sguardo e intendere questa sollecitazione di Benedetto in una prospettiva simbolica ulteriore. I fratelli devono lasciarsi convocare e assumere l’atteggiamento non del senior, ma dello iunior, anche quando magari sono già avanti negli anni, o saggiati e temprati da una lunga esperienza monastica. Occorre offrire il proprio consiglio, esporre il proprio parere con l’atteggiamento di chi sa rimanere piccolo, povero, bisognoso di ascoltare il diverso parere degli altri e di confrontarsi con la loro visione. Non bisogna in altri termini imporre la propria esperienza o vantare la propria competenza, quanto piuttosto farsi bisognosi e mendicanti di una parola altra e diversa.
Allora, questa coscienza della preferenza che Dio ha per il più piccolo, per l’ultimo, per il meno importante agli occhi nostri o del mondo, diventa una disciplina non solo dell’ascolto ma anche della parola. Ogni fratello è invitato a farsi piccolo, a farsi “ultimo”, a prendere l’ultimo posto al banchetto della condivisione della Parola: “I fratelli poi esprimano il loro consiglio con tutta umiltà e sottomissione, senza pretendere di imporre a ogni costo le loro vedute” (RB 3,4).[3]
In uno stile ecclesiale
Un’ultima annotazione. È evidente che il discernimento comunitario, non sempre, ma spesso, ha come esito delle decisioni da assumere, anche attraverso delle votazioni, che devono essere regolate e disciplinate in modo accurato. Rimane tuttavia vero che ciò a cui si tende non è tanto il prevalere di una maggioranza, quanto, il più possibile, l’emergere di una convergenza, proprio perché il desiderio è aiutarsi vicendevolmente a discernere ciò che è meglio, non secondo il proprio punto di vista personale, ma secondo ciò che il Signore rivela attraverso il consiglio e l’ascolto reciproci.
La dinamica capitolare ‘funziona bene’ non quando conduce a una decisione unanime (spesso accade, ma non sempre e non necessariamente), ma quando il discernimento al quale si giunge, anche qualora non sia da tutti condiviso, di fatto non divide la comunità, ma può addirittura confermarla e rafforzarla nel suo vincolo fraterno. Questo è possibile a condizione di essere molto vigilanti sul modo, lo stile, la qualità comunionale nella quale si è camminato insieme e insieme è stato possibile vivere un dialogo autentico.
L’esperienza monastica ci insegna che non sono tanto le decisioni assunte a edificare la comunità, quanto il modo concreto con cui si è attuato il cammino comunitario per giungere a quelle decisioni. La comunione non è l’esito finale del cammino, o il suo sbocco ultimo, ma è ciò che matura dentro il cammino stesso, nelle sue dinamiche, se sono vissute con il giusto stile, che è lo stile evangelico, uno stile autenticamente ecclesiale.
Forse l’impegno sinodale ha il merito di ricordarci questo aspetto: che non è solo importate camminare insieme, ma proprio il camminare in quanto tale, il cammino in sé. Accettare cioè che la propria identità ecclesiale la si riceve camminando, non facendo una riunione in più, per quanto possa riuscire bene o avere dei risultati concreti ed efficaci. Il cammino chiede sempre la pazienza di un’attesa e di una sospensione: c’è un momento nel quale il piede non è più dove era prima, non è ancora dove deve riposizionarsi, ma rimane sospeso in aria.
Forse è questo il momento che maggiormente oggi ci caratterizza come Chiesa: non più ancorati al passato, non già approdati al futuro, ma sospesi, in una tensione dinamica tra passato e futuro. Eppure anche questa fatica e questa incertezza appartengono alla bellezza del camminare, anzi ne costituiscono il suo ritmo e il suo respiro più dinamico e fecondo.
[1] M. Lepori, Sinodalità di comunione. Conferenza al Capitolo generale OCSO. Assisi, 10 febbraio 2022. È possibile trovare il testo integrale della riflessione del Padre Abate Mauro Lepori a questo indirizzo: https://www.ocist.org/ocist/images/pdf/20220210ITOCSO.pdf, p. 4.
[2] Scrive sant’Ignazio di Antiochia: «Siete tutti compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito Santo, in tutto ornati dei precetti di Gesù Cristo».
[3] M. Lepori, «Sinodalità di comunione», cit., p. 7.