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Il sepolcro vuoto è una assenza che parla d’amore, che parla di presenza del Risorto in mezzo a noi e che riconosciamo in tutti coloro che ogni giorno fanno del bene. L’Abate Luca nella Domenica di Pasqua a Montecassino

Il sepolcro vuoto è una assenza che parla d’amore, che parla di presenza del Risorto in mezzo a noi e che riconosciamo in tutti coloro che ogni giorno fanno del bene. L’Abate Luca nella Domenica di Pasqua a Montecassino

Vedere, credere, amare sono solo alcuni dei verbi e dei temi messi in evidenza dall’Abate Luca nella sua omelia di questa mattina a Montecassino durante la Celebrazione della Domenica di Pasqua in cui

Il testo integrale della sua omelia:

 

DOMENICA DI PASQUA NELLA RISURREZIONE DEL SIGNORE
Montecassino,9 aprile 2023

LETTURE: At 10,34a.37-43; Sal 117 (118); 1Cor 5,6-8; Gv 20,1-9

«L’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, vide e credette». Così il Quarto Vangelo ci narra la fede del discepolo amato dal Signore, che diviene modello di ogni figura discepolare. In lui e nella sua fede siamo sollecitati a rispecchiare la nostra stessa esperienza. Egli rimane senza nome anche per assumere il nome di ciascuno di noi. Egli vede e crede. C’è una endiadi, tipica del linguaggio semitico, che preferisce coordinare i verbi anziché subordinarli, ma noi potremmo scioglierla in entrami i sensi, perché i due verbi sono uno dentro l’altro: egli «vedendo crede», ma anche «credendo vede». La sua fede nasce da ciò che vede, ma ciò che vede, lo vede nella fede. Infatti, il verbo «vedere» caratterizza tutti e tre i personaggi di questa pagina evangelica: Maria di Magdala, Pietro, il Discepolo amato. Eppure è un vedere diverso, tanto che l’evangelista, in greco, ricorre a tre verbi differenti per descriverlo. In italiano noi non riusciamo a utilizzare verbi diversi. Usiamo sempre il verbo vedere, e allora dobbiamo un po’ spiegare il gioco sapiente dell’evangelista. Maria, almeno in questa prima fase della sua esperienza – poi per lei tutto cambierà quando si sentirà chiamata per nome dal Risorto – vede e in greco c’è il verbo blepo, che esprime il vedere più immediato, quello dei nostri occhi corporei. E ciò che vede è un sepolcro vuoto, un corpo assente. Il vedere di Pietro è detto con il verbo theoreo: un osservare attento, che si interroga, che cerca il significato di ciò che cade sotto lo sguardo. È un vedere non soltanto con gli occhi, ma con intelligenza, con curiosità, con molte domande. Il Discepolo amato dapprima vede anche lui come Maria, con il verbo blepo, ma poi, quando entra nel sepolcro, il suo vedere, che adesso si accompagna al credere, diventa orao; Giovanni cambia il verbo, per dire che adesso il suo è un vedere diverso da prima, è il vedere della fede, che non si arresta all’apparenza superficiale, ma penetra il significato profondo dei segni che osserva. Egli, appunto, vede credendo e crede vedendo. Non vede molto, soltanto dei piccoli segni, non incontra per il momento il Risorto come, poco dopo, accadrà a Maria, eppure vede e crede. È così il primo a entrare in quella beatitudine della fede che Gesù annuncerà otto giorni dopo a Tommaso: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29). Possiamo intendere: beati quelli che non mi hanno veduto, hanno visto solo dei segni, eppure hanno creduto. E il primo a riuscire a farlo è proprio il discepolo amato.

Anche noi desideriamo entrare in questa beatitudine. Vedere dei segni, soltanto dei segni e credere. Ma credere non può significare soltanto aderire intellettualmente a una verità di fede, significa, incontrare il Signore della vita e lasciarsi da lui toccare, dalle sue mani ancora piagate dai chiodi della crocifissione, lasciarsi da lui chiamare per nome, lasciarsi da lui inviare per camminare in una vita nuova. Farlo, certo, attraverso dei segni, persuasi però che quei segni ci parlano davvero di lui, ci consentono di incontrarlo, di percepire la sua presenza, di riconoscere il suo venire e stare in mezzo a noi. Significa sentire come la sua Parola, che ascoltiamo attraverso le Scritture rilette e comprese nella luce della sua Pasqua, ci scaldi il cuore e ci cambi lo sguardo, togliendo il velo che lo impedisce.

Anche noi vediamo e crediamo. E possiamo farlo se ci lasciamo un po’ istruire dall’esperienza del Discepolo amato. Cosa ci insegna il suo cammino di fede? Ne sottolineo rapidamente due tratti, tra gli altri. Il primo tratto: dopo Pietro anch’egli entra nel sepolcro. Con la morte e la sofferenza bisogna fare i conti. Non la si può sfuggire. Occorre entrare nel suo mistero. Perché i segni della risurrezione li incontriamo dentro il sepolcro, non al di fuori. La luce del Risorto splende nelle tenebre, non altrove. La misericordia di Dio si manifesta dentro il peccato, la sua giustizia dentro l’iniquità, la sua gioia dentro le lacrime. Occorre entrare e lì riconoscere i segni della vita nuova. Per Pietro e il discepolo segno sono i teli posati, il sudario avvolto a parte. Per noi, oggi, ci sono altri segni. Negli Atti degli Apostoli Pietro, parlando di Gesù, afferma che «egli passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui». E noi, oggi, possiamo riconoscere la presenza del Risorto in tanti uomini e donne che continuano a passare in mezzo a noi facendo del bene. Dio è con loro. In loro è il Risorto a farsi presente e a beneficare tutti. Ci sono poi altri segni: la parola di Dio che ascoltiamo, il pane e il vino nei quali è presente il Signore crocifisso e risorto, che ci nutre con la sua stessa vita. Anche noi, come il Discepolo amato, dobbiamo credere vedendo dei segni. L’importante che il nostro vedere non sia un vedere superficiale, ma un vedere profondo, contemplativo, nutrito dall’ascolto della parola di Dio, trasfigurato dalla fede.

Un secondo tratto: il discepolo che vede e crede è proprio colui che nel vangelo di Giovanni è identificato non da un nome, non da un ruolo, non da una storia, ma dall’amore che lo lega a Gesù. Dall’amarlo e dal sapersi da lui amato. A consentirgli di credere è la fede, ma una fede inseparabile dall’amore. Egli vede un sepolcro vuoto. Maria aveva detto: hanno portato via il Signore. C’è un’assenza. Ma è un’assenza che egli vive nell’amore. E l’amore, se è vero, è più forte della morte, è più forte del vuoto di un’assenza. Possono portarti via l’amato, ma l’amore rimane. L’amato può esserti strappato via dalla morte, ma l’amore rimane. E soltanto se l’amore rimane, potrai riconoscere e incontrare l’amato quando tornerà a visitarti e a incontrarti. Perché se l’amore non rimane, lui viene, ma tu sei altrove. Lui viene, ma tu non lo riconosci, perché il tuo cuore si è attaccato ad altro. Se tu non ami, tuo figlio può tornare a casa dopo lunghi anni, ma tu non lo aspetti più e non puoi corrergli incontro, come invece fa il padre della famosa parabola di Luca.

Se tu ami, invece, non solo lo riconosci, ma lo accogli, nella tua casa, anzi, nella tua stessa vita. Probabilmente questo discepolo senza nome è lo stesso discepolo anonimo che all’inizio del Vangelo, in compagnia di Andrea, aveva iniziato a seguire Gesù, e gli aveva domandato «Maestro, dove dimori?» ed era rimasto qualche ora nella sua casa. Ma adesso, entrato nel sepolcro, lo scopre vuoto: il Signore non abita più lì, così come non abita più in nessun’altra casa terrena. Abita ora alla destra del Padre, ma anche nella sua vita, nel suo cuore, nel segreto della sua esistenza. Si compie per lui quello che Gesù aveva promesso ai discepoli nell’ultima cena: «Se uno mi ama, osserverà la mia Parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Signore dove dimori? Dimoro in te, risponde Gesù a questo discepolo e a ognuno di noi. La lettura liturgica omette l’ultimo versetto di questa scena, che racconta che «i due discepoli se ne tornarono di nuovo a casa». Tornano alla loro casa di sempre, ma in modo diverso, perché il discepolo ci torna già da credente, mentre Pietro giungerà a capire, a credere, solo dopo, più tardi. Ma anche lui capirà, crederà, vedrà.

Come noi torneremo alle nostre case, dopo aver celebrato la Pasqua? O agli impegni di sempre, per noi monaci che abbiamo qui la nostra casa: come ci torneremo? È una buona domanda. Chiediamo al Signore di aiutarci a tornare alle nostre case con la profondità della fede e dell’amore del discepolo amato, che sa custodire e accogliere l’amore di Gesù e in questo modo lascia che la propria vita diventi casa, diventi dimora del Risorto.

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