L’omelia dell’abate Luca per la III domenica di Avvento

Montecassino, Immacolata 2023
17 dicembre 2023, III Domenica di Avvento «Gaudete» – anno B
Letture: Isaia 61,1-2.10-11; Lc 1,46-50.53-54; 1Ts 516-24; Gv 1,6-8.19-28

«Gaudete in Domino semper», abbiamo cantato all’inizio di questa celebrazione, vale a dire: «Rallegratevi nel Signore sempre». Il tema della gioia è dominante in questa terza domenica di Avvento, e straripa non solo dalle letture che sono state proclamate, ma anche dagli altri testi di questa liturgia. All’inizio della celebrazione ho pregato, a nome di tutti noi qui presenti, con queste parole: «Guarda, o Padre, il tuo popolo, che attende con fede il natale del Signore, e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza il grande mistero della salvezza». Attendiamo, ma la nostra attesa è già ricolma di esultanza e di gioia, perché il Signore è vicino, come sempre abbiamo cantato nell’introito: Dominus prope est, il Signore è vicino.

Siamo dunque invitati a gioire e a farlo entrando anzitutto nell’atteggiamento della beata vergine Maria, di cui abbiamo pregato il Magnificat come responsorio alla prima lettura. Maria gioisce perché si percepisce sotto lo sguardo di Dio, che guarda alla sua piccolezza e la rende beata grazie alle grandi opere che egli compie nella sua vita. Qui trova fondamento la nostra stessa gioia. A rallegrarci e a farci gioire non sono infatti le grandi imprese che possiamo compiere noi, o i successi che riusciamo a conseguire. Non sono neppure la fama e gli onori che riceviamo dagli altri. A farci gioire sono le opere che Dio compie in noi, nella nostra piccolezza e povertà, che però sono rivestite dalla sua misericordia e dalla sua potenza d’amore. E quali sono queste grandi opere? Nella prima lettura, Isaia ne elenca alcune: Dio, attraverso i suoi profeti, porta un lieto annuncio ai miseri, fascia le piaghe dei cuori spezzati, proclama la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri.

C’è però di più. Dio fa tutto questo, ma con uno stile preciso, che è quello di chi stringe con ciascuno dei suoi figli una relazione d’amore, che può essere paragonata a una relazione sponsale, come la relazione che c’è tra un uomo e una donna che si amano, o tra un padre e un figlio, o tra due amici profondamente legati tra di loro.

Nel Vangelo, Giovanni il Battista afferma di non essere degno di slegare il laccio dei sandali di colui che deve venire dopo di lui, cioè Gesù. Più esattamente, Giovanni dichiara: «io non ho il diritto, non ho l’autorità di slegare il laccio del suo sandalo». Per comprendere appieno questa affermazione, dobbiamo ricordare la cosiddetta legge del levirato, prescritta dalla Torà di Mosè. Se una donna rimaneva vedova e senza figli, il parente più prossimo aveva l’onere di sposarla per assicurare una discendenza al marito defunto. Per sottrarsi a questo dovere, bisognava compiere un gesto simbolico, come prescrive il Deuteronomio: «gli toglierà il sandalo dal piede» (Dt 25,9). È quanto accade nel libro di Rut. Booz vorrebbe prendere in moglie Rut, ma c’è un parente più prossimo, che vanta maggiori diritti di lui, ai quali tuttavia rinuncia proprio compiendo il rito di togliersi il sandalo per darlo a Booz (cf. Rut 4,5-8). È probabile che l’evangelista pensi a questa tradizione quando scrive che il Battista riconosce di non avere l’autorità o il diritto di togliere il sandalo a Gesù. Gesù è l’unico sposo e il Battista sa di non potergli sottrarre la sposa. Come lui stesso confesserà qualche pagina più avanti,voi stessi mi siete testimoni che io ho detto: «Non sono io il Cristo», ma: «Sono stato mandato avanti a lui». Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,28-30).

In questa domenica «gaudete» questa è la nostra esultanza, la nostra gioia. È la gioia di Maria, ma è anche la gioia di Giovanni, dell’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, ed esulta di gioia alla voce dello sposo. È la gioia di chi, come Maria, come Giovanni, sa di dover diminuire, perché sia il Signore a crescere in noi. Diminuire significa riconoscere che noi abbiamo bisogno di Gesù per essere veramente noi stessi. Questa è la consapevolezza di Giovanni. Il racconto del Vangelo è sorprendente. A chi lo interroga e gli domanda: «ma tu chi sei?», Giovanni risponde anzitutto dichiarando «chi non è»: «non sono il Cristo; non sono Elia; non sono il profeta». Giovanni anzitutto dice «io non sono», perché uno solo può dire «io sono», ed è Gesù. Ma questo significa anche confessare la propria povertà, la propria pochezza, la propria umiltà, come Maria; significa riconoscere il proprio limite, la propria mancanza, la propria incompiutezza: io non sono. C’è un limite, una mancanza, che si protendono dunque verso una relazione, grazie alla quale ciascuno matura la propria identità. Ciascuno di noi, per essere davvero se stesso, ha bisogno di una relazione, di un incontro, specialmente dell’incontro con il solo che può dire in modo pieno, profondo, compiuto: «Io sono». E allora, io devo diminuire, perché lui cresca in me, e mi doni la mia vera identità. È lui lo sposo, lui solo è lo sposo, e io posso davvero essere me stesso quando riconosco di essere l’amico dello sposo, che gioisce nell’ascoltare la sua voce, nell’accogliere la sua parola, nel vivere delle grandi cose che egli compie nella vita di ciascuno.

Allora possiamo davvero rallegrarci e gioire perché il Signore è vicino, e la sua vicinanza mi sostiene, mi consola, mi fascia di tenerezza, mi libera, mi riscalda, mi incoraggia, ma soprattutto dice chi davvero io sono. Mi dona il mio nome, come accadrà al Risorto quando incontrerà la Maddalena nel giardino della risurrezione e la chiamerà per nome: Maria. E Maria di Magdala gioirà, perché ascolterà la voce dello sposo che la chiama per nome. Così come Giovanni, l’amico dello sposo, gioisce quando sente la sua voce.

E anche noi, oggi, siamo nella gioia ascoltando la sua voce che ci raggiunge. Ci raggiunge nella Parola che abbiamo ascoltato, nel pane e nel vino segno del suo corpo donato e del suo sangue versato per noi, ci raggiunge nella bellezza delle relazioni che sappiamo vivere tra di noi, nel segno della pace che tra poco ci scambieremo nel suo Nome. Il Signore è vicino, e allora io posso gioire. E posso sapere chi davvero sono, perché egli mi chiama per nome, mi custodisce sotto il suo sguardo, compie in me grandi cose, mi riveste della sua salvezza e della sua giustizia.

Stiamo preparandoci a celebrare il Natale, che è l’evento di una nascita. Faremo memoria di quella nascita avvenuta una volta per tutte in un piccolo villaggio della Giudea, a Betlemme. Tuttavia, facendo memoria di quella nascita, consentiremo al Signore di tornare a nascere in noi. Noi stessi rinasceremo in lui, per ricevere da lui il nostro vero nome, la nostra autentica identità, la pienezza della sua gioia. In questa domenica cerchiamo di trovare un po’ di tempo per fermarci, fare silenzio, e domandarci: Signore, chi sei tu per me? E io chi sono davanti a te? Chi sono io per te? E qual è il nome nuovo che tu mi doni? Qual è la gioia vera che mi consenti di assaporare? Vorrei allora concludere con le parole finali di una celebre preghiera di san Paolo VI:

Tu ci sei necessario, o Cristo, o Signore, o Dio-con-noi,
per imparare l’amore vero e camminare nella gioia e nella forza della tua carità,
lungo il cammino della nostra vita faticosa,
fino all’incontro finale con Te amato, con Te atteso,
con Te benedetto nei secoli.
Amen!

Montecassino, Immacolata 2023

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