Adoperiamoci per diventare “memoria vivente di Gesù nei nostri gesti di ogni giorno”, costelliamo la nostra realtà di “dettagli” in cui ritrovare il bene che Gesù ci ha fatto. L’abate Luca nel Giovedì Santo

Giovedì Santo a Montecassino, Messa Vespertina in Coena Domini

Anche quest’anno a Montecassino sono stati i ragazzi della Comunità Exodus di Cassino-accompagnati dal responsabile di sede, Luigi Maccaro- i protagonisti della rievocazione del rito della Lavanda dei Piedi del Giovedì Santo.

Alle 17.30 ha avuto inizio la Messa Vespertina in Coena Domini al termine della quale il Santissimo Sacramento è stato accompagnato in processione per essere traslato nella cripta, luogo della Reposizione. Dopo il Gloria le maestose campane della Basilica Cattedrale sono state silenziate e torneremo a sentirle durante la Veglia Pasquale di sabato notte.

Di seguito il testo integrale della omelia dell’Abate Luca, che ci ricorda di come Gesù inviti ciascuno di noi a diventare sua ‘memoria vivente’, a fare nostri quei gesti che Egli ha compiuto, per portarli nel nostro quotidiano, nelle azioni che ripetiamo ogni giorno affinché si riempiano di significato e possano costellare la nostra esistenza di ‘dettagli’ che ci aiutino a ricordare il bene che Dio ha fatto a ciascuno di noi. Solo così possiamo riuscire a dare un significato diverso al nostro presente e a guardare con speranza e fiducia al domani che verrà.

 

MESSA IN COENA DOMINI, GIOVEDÌ SANTO 6 aprile 2023
LETTURE: Es 12,1-8.11-14; Sal 115; 1Cor 11,23-26; Gv 13,1-15

C’è un termine che ricorre con insistenza nelle letture che abbiamo ascoltato, e che costituisce una sorta di filo rosso che le collega e le unisce, ed è il termine ‘memoria’, o ‘memoriale’. Nel libro dell’Esodo Mosè, dopo aver prescritto come celebrare la Pasqua, con il rito dell’agnello e dei pani azzimi, dice al popolo: questo giorno sarà per voi un memoriale (cf. Es 12,14). Cioè dovete ricordare, dovete far memoria di ciò che i vostri padri hanno vissuto quando sono stati liberati dalla schiavitù del faraone, perché anche voi possiate divenire partecipi di quella liberazione e vivere come un popolo libero. Nella seconda lettura, scrivendo alla comunità di Corinto, san Paolo ricorda le parole e i gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena sul pane e sul vino. E ci consegna questa parola che Gesù rivolge ai discepoli: «Fate questo in memoria di me» (cf. 1Cor 11,24.25). Nel Vangelo, dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù ordina loro: «Vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (cf. Gv 13,15). Dunque, si tratta di ricordare ciò che Gesù ha fatto per tornare a ripeterlo nella propria vita. Quella che ci viene chiesta non è una memoria solamente intellettuale o psicologica, che si limita a imprimere nella mente un ricordo del passato; non è neppure una memoria nostalgica, che ci blocca e ci chiude in quanto una volta è successo; è piuttosto una memoria profetica, che fa sì che quello che ricordiamo ci consenta di dare un significato a ciò che adesso stiamo vivendo, nel nostro presente, aprendolo così a un futuro diverso, generato proprio da quella memoria. Oggi, anche grazie alle scienze umane e psicologiche, siamo diventati più consapevoli che viviamo sulla base delle nostre memorie. Sin dai primi giorni della nostra esistenza, vissuti nel grembo materno, si è andata formando in noi una memoria che poi ci plasma, ci dà forma, e ci condiziona, soprattutto quando ci sono degli eventi negativi che hanno segnato la nostra vicenda e dai quali facciamo fatica a liberarci.

Allora, quanto è importante, addirittura decisivo, ricordare non solo quello che dalla vita abbiamo ricevuto, nel bene o nel male, ma fare memoria di ciò che Dio ha fatto per noi. Occorre ricordare le opere di Dio nella storia, ma anche in quella storia più prossima che è la nostra storia personale, e le sue opere sono sempre di benedizione e di vita, di misericordia e di perdono, di consolazione e di speranza. Ricordare il bene che Dio ci ha fatto ci consente di dare un significato diverso al nostro presente e di guardare con speranza e fiducia al domani che ci sta davanti. La memoria diventa promessa: Dio continuerà a compiere anche in futuro ciò che ha fatto per noi nel passato. Se Dio ha liberato il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto, libererà anche noi; se Dio ha risuscitato Gesù dal sepolcro, risusciterà anche noi.

C’è però qualcosa di più, e di più esigente, in ciò che la parola di Dio oggi ci annuncia. Come ricorda san Paolo, nell’ultima cena Gesù ha detto: «Fate questo in memoria di me». Dobbiamo ascoltare in modo forte queste parole. È come se Gesù ci dicesse: «diventate mia memoria vivente». Ricordate ciò che io ho fatto, per diventare voi stessi, con tutta la vostra vita, mia memoria vivente. Se io vi ho lavato i piedi, dovete anche voi lavarvi i piedi gli uni gli altri. Se io ho donato la mia vita, dovete anche voi vivere la vostra esistenza come un dono da offrire, a Dio e agli altri. Ecco che la memoria diventa memoria esistenziale. Ricordare le opere di Dio significa ricevere la possibilità di compiere a nostra volta non le stesse opere, ma opere nostre, che siano però compiute secondo quella logica, secondo quell’amore, secondo quel dono.

In particolare, ciò che stiamo celebrando in questa eucaristia, facendo memoria della cena del Signore, di quell’ultima cena vissuta con i discepoli prima dell’arresto e della passione, ci chiede di ricordare due gesti che Gesù ha compiuto in quella cena. Il primo gesto: la lavanda dei piedi. Il secondo gesto: il pane e il sangue offerti come segno reale del suo corpo e del suo sangue donati fino alla morte, per noi e per la nostra salvezza. Due gesti diversi, che però rivelano lo stesso atteggiamento di Gesù, cioè il suo dono, l’offerta di tutta la sua vita. Infatti, anche la lavanda dei piedi ha lo stesso sapore, lo stesso colore dell’eucaristia, di quel pane donato, di quel vino versato. Giovanni racconta che per lavare i piedi Gesù prima «depose le sue vesti» e poi, dopo che ebbe lavato i piedi, «riprese le sue vesti» (cf. Gv 13,4.12). Sono gli stessi verbi con i quali Gesù, nel discorso del buon pastore al capitolo decimo, afferma di deporre la propria vita per poi riprenderla di nuovo. Gesù depone le sue vesti così come depone la sua vita nella morte; riprende le sue vesti, così come riprende la sua vita nella risurrezione. Dunque, il gesto con cui Gesù lava i piedi ai discepoli è certamente l’atteggiamento di chi si umilia, si abbassa, per farsi servo, addirittura schiavo degli altri, ma è soprattutto il gesto di chi serve sino a questo punto, sino a donare la propria vita per gli altri, anche per Giuda, che lo tradisce, anche per Pietro che lo rinnega, anche per gli altri discepoli, che lo abbondano. Gesù lava i piedi a tutti, nessuno escluso, perché egli offre la vita per tutti, perché nessuno vada perduto.

Dunque, i due gesti – la lavanda dei piedi e il dono del pane e del vino – sono simili, condividono la medesima logica. C’è però anche una differenza che li caratterizza. Il dono della vita, fino alla morte, lo si può fare una sola volta. È un gesto pieno, definitivo, irripetibile. Lavare i piedi è un gesto più feriale, quotidiano, che puoi tornare a fare tante e tante volte nella tua vita. Ma è proprio nella semplicità e nella ferialità di questo umile gesto, che tutti possono fare, che tutti sono in grado di fare, che si rende presente e si realizza concretamente il grande, supremo, unico gesto del dono della propria vita. Probabilmente conoscete la figura di fr Christian De Chergé, il priore della comunità di trappisti rapiti e uccisi nel 1996 in Algeria, e ora beatificati insieme agli altri martiri di quegli anni in Algeria. In un capitolo mattutino, rivolto ai monaci della sua comunità, ma che ha valore per ogni cristiano, egli diceva:

«Il dono della propria vita dà frutto giorno per giorno, umilmente, tenacemente». La vita del monaco [come pure quella di ogni cristiano] è piena di quei piccoli gesti che «spesso costano molto, soprattutto quando vanno ripetuti ogni giorno. Lavare i piedi dei fratelli il Giovedì Santo, passi, ma se si dovesse farlo quotidianamente? E al primo che capita?». La vita regolare è il luogo del «martirio d’amore» del monaco, «attraverso tante piccole cose. Noi abbiamo dato il nostro cuore “all’ingrosso” a Dio e ci costa molto che egli ce lo prenda al dettaglio [cioè giorno dopo giorno, nei piccoli e quotidiani gesti della nostra fedeltà feriale]. Mettersi il grembiule come Gesù può essere grave e solenne tanto quanto il dono della vita… e viceversa dare la vita può essere semplice quanto mettersi un grembiule».

Viviamo così questo giovedì santo. Lasciamoci davvero nutrire e dissetare dal corpo e dal sangue di Gesù, da quel suo pane offerto per noi, da quel suo vino versato per noi, per diventare sua memoria vivente. E dobbiamo essere sua memoria vivente non necessariamente nei grandi gesti della vita, ma anzitutto in quei piccoli gesti che possiamo fare ogni giorno, in quel ‘dettaglio’ nel quale però si rende vera e reale l’offerta che abbiamo fatto, ‘all’ingrosso’, a Dio e ai nostri fratelli e sorelle.

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