L’Abbazia festeggia i 60 anni dalla proclamazione di San Benedetto a Patrono d’Europa. All’interno l’omelia dell’Abate Luca.
San Benedetto, patrono d’Europa 24 ottobre 1964
Saluto ciascuno di voi e vi ringrazio per la vostra presenza. Saluto le autorità civili e militari, il Prefetto di Frosinone, il dottor Liguori, il Sindaco di Cassino, il dott. Salera, l’Arcivescovo emerito di Gaeta d. Bernardo, già abate di Montecassino, gli altri sacerdoti che concelebrano con noi. Attendiamo anche l’arrivo del nuovo Abate primate della Confederazione benedettina, padre Jeremias, che sta rientrando dall’Austria e non ha voluto mancare a questa celebrazione; al termine di questa eucaristia ci rivolgerà la sua parola. Siamo qui per celebrare un anniversario significativo: sessant’anni fa san Paolo VI saliva qui in Abbazia per consacrare questa Cattedrale, ricostruita dopo gli eventi bellici, e in quella occasione proclamava san Benedetto patrono principale d’Europa, con la lettera apostolica Pacis nuntius, testimone di pace. Possiamo dire che san Paolo VI è salito a Montecassino come pellegrino di pace. Nella splendida omelia che pronunciò in quella occasione, proprio nelle sue battute iniziali, egli affermava: «qui la pace troviamo… qui la pace rechiamo… qui la pace celebriamo». Egli, dunque, è salito a Montecassino con questo desiderio profondo nel cuore: trovare la pace, recare la pace, celebrare la pace. E vorrei che questo fosse il desiderio che ciascuno custodisce nel segreto della propria vita, il desiderio che lo ha spinto a salire sin qui per vivere insieme alla nostra comunità monastica questo momento di intensa preghiera. Non solo celebrare un anniversario, per quanto importante esso sia, non solo fare memoria di un passato significativo, che può e deve continuare a dare senso al presente e aiutarci a disegnare il futuro, ma anche, anzi soprattutto questo: trovare la pace, recare la pace, celebrare la pace. E in quella omelia san Paolo VI ha molto insistito, in innumerevoli punti del suo discorso, su questo tema della pace. Ricordo solo qualche breve passaggio, e lo faccio con l’intento di invogliarvi a rileggere il testo integrale delle parole che san Paolo VI pronunciò qui sessant’anni fa, poiché esse continuano a essere di straordinaria attualità. Le possiamo ascoltare come parole a noi contemporanee, parole mai invecchiate, parole che possono ancora illuminarci e nutrirci.
Qui la pace – affermava il papa del Concilio, il papa santo – ci appare altrettanto vera che viva; qui ci appare attiva e feconda. Qui si rivela nella sua capacità, estremamente interessante, di ricostruzione, di rinascita, di rigenerazione. Parlano queste mura. È la pace che le ha fatte risorgere. […] È la pace che ha compiuto il prodigio. Sono gli uomini della pace che ne sono stati magnifici e solleciti operatori. […] Così celebriamo la pace. Vogliamo qui, quasi simbolicamente, segnare l’epilogo della guerra; Dio voglia: di tutte le guerre!
Sappiamo che questo desiderio – la fine della guerra, di tutte le guerre – non si è realizzato; anzi, ai nostri giorni la guerra sembra tornare ad essere un destino ineluttabile dell’umanità. O meglio, c’è chi in ogni modo cerca di farcelo credere, ma non è così. Non è così. Ha ragione Paolo VI: è la pace che fa risorgere e genera vita, le guerre seminano solo morte, distruzione, soprattutto odio. Allora è importante anche per noi trovare luoghi di pace; portare la pace, perché essa è impegno e dovere non solo per i potenti della terra, ma per ciascuno di noi. Occorre infine celebrare la pace, perché essa non è solo seme che germoglia dalla terra, è anche, è soprattutto dono che scende dall’alto. Dono da invocare, dono da accogliere, dono da celebrare. Oggi celebriamo un anniversario, ma desideriamo soprattutto celebrare la pace, invocare la pace, come dono che viene dall’alto.
Può allora sorprenderci, se non scandalizzarci, la parola di Gesù che abbiamo ascoltato nel Vangelo di Luca. Per questa celebrazione abbiamo infatti deciso di non scegliere letture speciali, ma di proclamare la parola di Dio che oggi la liturgia feriale ci propone. E oggi ci propone proprio queste parole di Gesù, che sembrano contraddire quanto ho sin qui detto. Dice infatti Gesù:
Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera.
Sono parole paradossali, che non possiamo isolare o assolutizzare, dimenticando altre parole che Gesù pronuncia nei Vangeli. Parole come «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio», oppure, in Giovanni: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi». Pensiamo a come il Risorto saluta i discepoli, dicendo loro: «Pace a voi!». Dunque, il Signore ci dona davvero la pace. Però al tempo stesso ci ricorda che la pace ha un prezzo da pagare. È un suo dono, ma chiede la risposta della nostra libertà. Talora, o spesso, ci chiede rinunce difficili, scelte dolorose, divisioni che possono attraversare i nostri affetti più cari. Divisioni che soprattutto attraversano il nostro cuore, il nostro desiderio, i nostri progetti. Nelle parole che Gesù pronuncia in questa pagina di Luca, c’è subito prima un altro aspetto paradossale: Gesù infatti parla al tempo stesso di un desiderio che lo sospinge e di un’angoscia che lo attanaglia. «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» Ecco il suo desiderio! «Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!». Ecco la sua angoscia! Desiderio e angoscia insieme. A noi appare come un contrasto incomprensibile, giacché immaginiamo il desiderio come qualcosa di appagante, di soddisfacente. Qualcosa che ci riempie la vita di gioia. Invece Gesù ci ricorda che i desideri più veri hanno comunque un prezzo da pagare, chiedono una rinuncia, un sacrificio, talora angoscianti. Per lui il desiderio di accendere il fuoco dello Spirito nella storia umana ha significato l’angoscia della croce, l’angoscia del dono della propria vita. Sino alla morte.
Allo stesso modo, anche il nostro desiderio di pace ci chiede talora qualcosa che può angosciarci, perché è esigente, ha dei costi da pagare, dei sacrifici da vivere, delle rinunce da sopportare. Eppure, è proprio attraverso questa via stretta e tribolata che possiamo giungere a realizzare il nostro desiderio, possiamo costruire la pace, possiamo accoglierla come dono dall’alto. Anche la pace tra i popoli chiede rinunce dolorose, che però sono finalizzate a un bene più grande, qual è la pace. Talora chiede delle divisioni, perché solo così, attraversando la divisione, si può giungere a percorrere vie di riconciliazione e di perdono. La pace non significa evitare o nascondere i conflitti, significa piuttosto attraversarli con parole di riconciliazione e di perdono.
Sessant’anni fa, qui, in questa basilica, Paolo VI proclamava san Benedetto patrono e protettore d’Europa. In questo modo la Chiesa ha riconosciuto l’importanza che la sua vita e la sua testimonianza evangelica, la sua Regola e i monasteri che l’hanno vissuta, hanno avuto nell’unificazione dell’Europa e nella edificazione della sua civiltà, della sua stessa identità. Se siamo europei, lo dobbiamo a tante radici, ma anche alla radice benedettina, che non può essere né dimenticata né trascurata.
Nello stesso tempo, la memoria del passato ci chiede di volgerci al presente, per continuare a tenere vivi questi valori, che non appartengono soltanto a noi monaci, ma a ogni credente nel Vangelo, direi a ogni uomo e ogni donna che vogliano essere degni di questo nome. Nella sua omelia, Paolo VI definiva san Benedetto come uomo «recuperato a se stesso»; così egli traduceva l’immagine con cui san Gregorio Magno nei Dialoghi descrive l’habitare secum di Benedetto nel tempo della sua vita eremitica. Oggi abbiamo bisogno di questo. Abbiamo bisogno di continuare a nutrirci della testimonianza e dell’insegnamento di Benedetto, per diventare uomini e donne recuperati a se stessi. Uomini e donne capaci di fede e di unità, proprio perché pienamente recuperati a se stessi. E perché capaci di fede e di unità, capaci anche di pace. Guardiamo a san Benedetto, come nostro patrono e protettore, e chiediamo la sua intercessione perché Dio ci doni di percorrere vie attraverso le quali, recuperati a noi stessi, diveniamo uomini e donne di fede, di unità e di pace.
Alla fine della celebrazione anche l’Abate Primate ha voluto salutare i fedeli che hanno partecipato alla funzione. Condividiamo di seguito le sue parole:
Reverendissimo Padre Abate, cari confratelli di Montecassino, illustri ospiti d’onore, cari fratelli e sorelle, è stato per me, come Abate Primate della Confederazione Benedettina, un grande desiderio essere presente oggi qui a questa celebrazione festiva.
In questo giorno, nel ricordo del 24 ottobre 1964, si intrecciano molti temi e motivi in un tessuto complesso: ricordiamo la consacrazione della chiesa abbaziale di Montecassino, che grazie all’aiuto di innumerevoli persone è risorta qui dopo la distruzione insensata, secondo le immortali parole dell’abate Diamare “com’era e dov’era”. Ricordiamo dunque la devastazione che la guerra ha causato in questo luogo e in tanti altri luoghi – una catastrofe mondiale. Il mondo non ha visto nulla di paragonabile. Ricordiamo la presenza del grande e santo Papa Paolo VI, che con la sua preghiera e le sue mani ha compiuto la consacrazione e l’unzione di questa chiesa, prima di – fatto non insignificante – benedire anche una parrocchia nella valle e visitare il cimitero di guerra. Con le sue parole e i suoi gesti fece di questo giorno una festa della pace. Egli stesso disse nella sua omelia:”Così celebriamo la pace. Vogliamo qui, quasi simbolicamente, segnare l’epilogo della guerra; Dio voglia: di tutte le guerre!” Questo pio desiderio rimase tale, ma Montecassino divenne così un monito per la pace, un luogo da cui nei decenni successivi sono partite molte iniziative di pace. E come se tutto ciò non bastasse: in questo giorno il Papa proclamò San Benedetto Patrono d’Europa, un fatto che riempie noi Benedettini di orgoglio e gioia, e anche voi, persone legate a questo cenobio.
Questo tessuto offre quindi molta materia per il ricordo e la meditazione, per il ringraziamento e la gioia. Ma,mi sembra importante che oggi – e in realtà sempre, quando celebriamo la storia guardare anche al futuro. San Benedetto fondò questo monastero in un mondo che stava attraversando una drammatica trasformazione. L’epoca delle invasioni barbariche, in cui ogni ordine consueto veniva sovvertito, in cui cadevano vecchie certezze e nuove forme di convivenza sociale faticosamente nascevano in un tempo pieno di violenza, dolore e sofferenza, qui nacque un luogo protetto. Un luogo di ricerca di Dio nella solitudine, ma anche la culla di una nuova forma di civiltà, che sulla base della fede cristiana poté costruire ciò che sarebbe diventata l’Europa cristiana. È un paradosso che dal ritiro di persone che volevano lasciare alle spalle gran parte del mondo, sia nato un movimento che ha profondamente trasformato e plasmato questo mondo.
Oggi ci troviamo di nuovo di fronte a un cambiamento epocale. Viviamo cambiamenti che appaiono difficilmente controllabili. Abbiamo appena iniziato ad abituarci a una vita che cambia sotto l’influsso del cambiamento climatico, che è minacciata dal disfacimento di vecchie alleanze, in cui anche la guerra torna a far parte della quotidianità, e in cui il progresso tecnologico promette al contempo le più belle promesse e minacce esistenziali.
Benedetto ha guardato indietro. Egli esorta i suoi monaci a famillarizzare con le istruzioni dei Padri precedenti. Ma soprattutto ha dato ai suoi monaci gli strumenti con cui potevano plasmare il futuro. Papa Paolo VI lo ha riassunto in modo efficace nel suo scritto: con la croce, il libro l’aratro.
1500 anni fa i monaci divennero una forza che cambiò il mondo. Oggi noi Benedettini siamo una parte relativamente piccola della Chiesa cattolica. Sarebbe presuntuoso aspettarsi da noi qualcosa di simile ancora una volta. Ma possiamo e dobbiamo da questo luogo, e dai molti altri, migliaia di luoghi nel mondo, dove si vive secondo la Regola del Maestro cassinese, ricordare le virtù che possono permettere alle persone di trovare una patria in questo tempo nuovo e forse molto inospitale:
Umanità, la giusta misura, ordine. Soprattutto anche umiltà: la consapevolezza che siamo in cammino e non abbiamo tutte le risposte, e che dobbiamo cercare le risposte del futuro in comunità, come i monaci cercano di fare da 1500 anni.
Oggi è un giorno importante su questa strada.
Nel 2029 celebreremo i 1500 anni della fondazione di questa casa. 1500 anni di una saggezza di vita nata in questo luogo. Prenderemo i prossimi anni come occasione per affrontare molto seriamente questi temi. E invito tutti voi a partecipare a questa riflessione, a questo lavoro sul futuro.