L’Omelia dell’abate Luca nella Veglia pasquale a Montecassino

Veglia pasquale
30 marzo 2024

Letture: Gen 1,1-2,2; Gen 22,1-18; Es 14,15-15,1; Is 54,5-14; Is 55,1-11; Bar 3,9-15.32-4,4; Ez 36,16-28; Rm 6,3-11; Sal 117; Mc 16,1-8

Secondo un’antica tradizione liturgica, abbiamo proclamato le letture alla luce del cero pasquale, posto vicino all’ambone. Nelle prime comunità cristiane, nella veglia pasquale era la sola luce del cero a illuminare i testi da leggere. Noi non riusciamo più a farlo, abbiamo bisogno dell’aiuto della luce artificiale, rimane però questo segno: il cero collocato vicino al lezionario. Il cero è simbolo di Cristo Risorto, che dialoga con le Scritture. È lui, infatti, a portarle a compimento e a spiegarcele, come d’altra parte, in modo circolare, sono le Scritture a consentirci di interpretare il mistero della morte e risurrezione di Gesù e a consegnarci la fede pasquale.

Il cero che abbiamo acceso nella notte, tuttavia, non rischiara solo le Scritture, illumina tutta la nostra vita. Lo abbiamo cantato nell’Exultet: «Ti preghiamo, Signore, che questo cero, offerto in onore del tuo nome per illuminare l’oscurità di questa notte, risplenda di luce che mai si spegne». La luce del cero non si spegne, perché simboleggia Cristo Risorto, che per sempre è il Vivente e rimane nella storia come luce vera del mondo. E noi, nella luce di questo cero, nella luce di Cristo Risorto, stiamo compiendo in questa notte dei gesti luminosi, che rischiarano le tenebre di quest’ora tarda, e dovrebbero renderci capaci di rischiarare ogni ora del tempo, ogni ora della nostra esistenza.

Il primo gesto è proprio il nostro vegliare nella notte. Infatti, rimanere svegli non significa solamente riuscire a vincere la stanchezza e il sonno; esige da noi molto di più. Ci chiede il coraggio della speranza. Celebrando in questi giorni la memoria della passione del Signore Gesù, abbiamo ascoltato da che cosa è abitata questa notte: è la notte del male, del dolore, della morte, del peccato, del tradimento, dell’abbandono, dell’incredulità… Ma pensiamo alle tante altre tenebre che oscurano i nostri giorni: c’è la notte della guerra, la notte della violenza insensata contro tante vittime innocenti; la notte delle famiglie che si dividono, della precarietà sociale ed economica, di giovani che si tolgono la vita perché non vedono futuro davanti a sé, o di tanti che cadono nelle dipendenze delle droghe o del gioco perché cercano di evadere da pesi quotidiani che non riescono a portare, o non trovano significato da conferire a ciò che vivono. E ci sono tanti altri pesi che probabilmente molti di voi portano nel cuore, che io non conosco, ma ognuno conosce bene i propri dolori. La notte di Gesù è la nostra notte. E la nostra notte è anche la sua. Rimanere svegli in questa notte significa allora vivere questo atto di fede e di speranza: sapere che l’amore del Signore Risorto è in grado di rischiarare e di vincere queste tenebre, ed è in grado di rendere partecipi anche noi della sua vittoria. Nonostante ogni apparenza contraria, siamo già stati resi più forti della notte ed è per questo motivo che possiamo vegliare, come figli della luce e figli del giorno. E vegliamo anche per un secondo motivo. Vegliamo perché attendiamo. Lo sposo viene, lo sposo torna, dopo essere scomparso per qualche tempo, come l’amato del Cantico dei Cantici. Non possiamo dormire, perché è lui il nostro vero riposo, più del sonno. E non ci può essere desiderio più alto di questo: finalmente incontrarlo.

E nella notte, alla debole ma invincibile luce del Cero pasquale, all’inizio di questa veglia abbiamo camminato, seguendo colui che ci precede. Camminare significa vivere la pazienza del passo dopo passo. È un altro gesto di fede e di coraggio: accettare la durata del tempo. Noi celebriamo la Pasqua non solo in questa notte, ma la celebriamo nei tre giorni del Triduo Pasquale. È la celebrazione di un unico mistero che accetta però di sopportare pazientemente la durata del tempo. Tre giorni tutti necessari alla Pasqua: il venerdì santo è il giorno del grido, quello del Crocifisso che muore gridando la sua angoscia al Padre; in esso si raccoglie tutto il grido che sale dalla sofferenza degli uomini, dal dolore del mondo, che Gesù assume su di sé fino a lasciarsene squarciare il corpo. In questa veglia pasquale è esploso poi il grido della gioia perché la morte è stata vinta, la sofferenza redenta, ogni lacrima asciugata. Tuttavia, tra questi due gridi, dell’angoscia e della gioia, è necessario che ci sia il grande silenzio del sabato santo, in cui il dolore diventa silenzio e, nel silenzio, attesa e invocazione di salvezza. Solo in questo silenzio il primo grido può convertirsi e accogliere in sé il grido della gioia. La gioia pasquale è questa e non altra: non una gioia che rimpiazza o si sostituisce al dolore, come cancellandolo o ignorandolo, quasi non esistesse; essa matura nel silenzio, dentro il dolore stesso del mondo, convertendolo dal di dentro, venendo ad abitare in esso. Nel silenzio di questa santissima notte dobbiamo cantare l’alleluia, ma come persone che continuano a vegliare e camminare nella notte e, in forza della loro speranza nel Cristo risorto, sanno accompagnare e sostenere l’attesa di tutti coloro che da soli non riescono a farlo, perché la loro sofferenza è troppo grande, il loro grido ancora impossibilitato a entrare nel silenzio dell’invocazione e della speranza.

Ecco allora un terzo gesto: rinnovare le nostre promesse battesimali, come faremo tra poco. Tornare a dire di sì al nostro battesimo, al dono che Dio ci ha fatto facendoci rinascere dalle acque della Pasqua di suo Figlio, nel suo sangue, nel suo Spirito. Dobbiamo dire di sì al battesimo, dire di sì alla nostra vita cristiana, dire di sì a Gesù Risorto, dire di sì alle promesse del Padre che in lui si compiono. Se viviamo da cristiani autentici, la storia, anche nella sua notte, troverà calore, conforto, sempre una nuova rinascita. E possiamo rinnovare le nostre promesse battesimali perché abbiamo ascoltato, attraverso le letture che sono state proclamate, tutte le promesse di Dio alla nostra vita e alla nostra storia, che si sono compiute e hanno ricevuto il loro sigillo proprio nella risurrezione di Gesù, che diventa però promessa: anche noi in lui risorgeremo e vinceremo per sempre la notte. Come ci ricorda l’Apocalisse, attendiamo il giorno in cui non ci sarà più notte. Ascoltare la parola di Dio significa avere il coraggio di credere in una promessa, anche quando sembra toglierti non solo il tuo unico figlio, Isacco, ma persino la tua stessa vita. Ma la promessa che Dio fa alla nostra vita non è quella di tenerla a riparo da ogni pericolo. Anche noi come Gesù non abbiamo tana in cui rifugiarci o nido in cui trovare riparo. O comunque, Dio non ce li garantisce. La promessa che Dio ci fa è un’altra: di poter continuare a spezzare il pane nella memoria del Signore Gesù e della sua Pasqua. È in altre parole la promessa che nulla sarà perduto, anzi sarà risuscitato e rimarrà in eterno, di tutto ciò che avremo vissuto nell’amore e nel dono di noi stessi. È la promessa che anche noi con Gesù possiamo spezzare il pane nella notte, e ogni volta che noi spezziamo il pane nel suo nome spezziamo anche la logica del male, del potere, dell’egoismo, della violenza. L’amore che tutto crede, tutto spera, tutto sopporta, sa anche questo: che anziché essere posti al riparo dal male, siamo posti come fioca luce nella notte per risplendere in essa e rischiararla.

E allora, conclusa questa celebrazione, torniamo alle nostre case, alla nostra vita, con questa certezza e con questo desiderio: di continuare a vegliare, per rimanere luminosi anche quando le tenebre della notte sembrano farsi più fitte. Per rimanere persone che continuano a credere nelle promesse di Dio, e così possono camminare ogni giorno, passo dopo passo, nella pazienza del tempo, verso quel giorno che non conoscerà più notte. Sì, siamo ancora nella notte, ma possiamo e dobbiamo abitarla con questa certezza, che il canto dell’Exultet ci ha consegnato: Cristo, simboleggiato dal cero pasquale, risplende di una luce che mai più si spegne.