L’omelia dell’abate Luca per la Domenica delle Palme. Montecassino, 24 marzo 2024

Domenica delle Palme e della Passione del Signore
24 marzo 2024

Letture: Mc 11,1-10; Is 50,4-7; Sal 21 (22); Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47

Abbiamo ascoltato il racconto della Passione di Marco, proclamato, secondo un’antica tradizione, da tre voci diverse. Questa prassi di leggere il testo può anche suggerirci un modo peculiare per accostare e interpretare il racconto, facendo attenzione ai diversi personaggi che vi incontriamo, e soprattutto ai loro atteggiamenti, sentimenti, sguardi, giudizi, e cercando di volta in volta di immedesimarci in ciascuno di loro, cogliendone le diverse reazioni di fronte a quanto sta avvenendo.

Possiamo ad esempio identificarci con i discepoli, che fuggono sopraffatti dalla paura, dallo scandalo di quanto accade, e di cui non riescono a comprendere il significato. Per loro rappresenta la smentita della speranza che avevano riposto in Gesù. Oppure possiamo assumere il punto di vista delle donne, che al contrario continuano a seguire il loro Signore anche nell’ora tragica della Croce, sostenute dal coraggio fedele di un amore compassionevole. C’è lo sguardo di chi giudica Gesù e lo schernisce, o la mite obbedienza di Simone di Cirene, costretto ad aiutarlo a portare la croce. Possiamo immedesimarci nella sofferenza dei due ladroni crocifissi insieme a Gesù, oppure nello sguardo di fede del centurione che proprio vedendolo morire in quel modo giunge ad esclamare: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio».

Ci è lecito persino osare assumere il punto di vista di Gesù stesso, per contemplare come egli viva tutto nell’obbedienza e nell’amore di chi dona la propria vita per la nostra salvezza. Tanti sguardi diversi che si incrociano, atteggiamenti differenti che si intrecciano, proponendoci vie differenti per entrare nel racconto, interpretarlo, attualizzarlo nella nostra esistenza.

In questa settimana santa, che ci conduce alla celebrazione della Pasqua, se avete un po’ di tempo, provate a rileggere più volte questo racconto, che occupa due capitoli del Vangelo di Marco (il 14 e il 15); leggetelo e rileggetelo, ma fatelo assumendo ogni volta lo sguardo differente e peculiare di uno dei suoi protagonisti, o le donne, o i discepoli, o le folle, o Gesù stesso, e così via. Potrete constatare come la lettura dello stesso testo vi offrirà significati differenti, ma tutti utili e preziosi per il proprio personale cammino di fede.

In questo momento, però, io vorrei assumere il punto di vista di un altro personaggio, che non incontriamo nel racconto della passione, ma nella narrazione che l’evangelista fa dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, che abbiamo ascoltato all’inizio della nostra celebrazione, dopo la benedizione degli ulivi. Non è un personaggio umano, ma animale, e che però mi pare assuma agli occhi dell’evangelista una grande importanza simbolica, che ci interpella personalmente, in modo molto diretto.

Sto pensando a quell’asino, o meglio a quel giovane puledro sul quale Gesù sale per entrare a Gerusalemme, dopo avere ordinato che venisse slegato. Gesù lo fa slegare dai suoi legacci, così come nel Vangelo di Giovanni ordina che sia slegato Lazzaro quando lo chiama fuori dal suo sepolcro. Marco non scrive che sia un asino, ma un giovane puledro, pieno di energie, sul quale peraltro nessuno era ancora salito. Dunque, un puledro indomito, non ancora domato, ribelle, vitale, libero, ma legato, così come siamo tutti noi. Siamo indomiti e ribelli, perché fatichiamo a fare la volontà di Dio, e nello stesso tempo, in questa nostra ingenua pretesa di libertà, non ci accorgiamo di essere legati, con tanti vincoli e legacci che ci imprigionano, ci condizionano.

Questo puledro è simbolo di una umanità schiava del peccato, è simbolo di ciascuno di noi. Gesù, al tempo stesso, ci libera e ci doma, ci libera e ci rende capaci di accogliere la sua signoria, di riconoscere lui come l’unico vero signore, che non ci asservisce, non ci schiavizza, ma ci libera e ci restituisce alla nostra vera identità. Ci fa essere chi davvero dobbiamo essere. Non solo: ci rende poi capaci di accogliere e di portare su di noi la sua signoria. È lui a condurci, ma siamo anche noi a portarlo, a consentirgli di entrare a Gerusalemme, di entrare in ogni luogo della nostra vita e della nostra storia. Ecco il discepolo! Ogni discepolo dovrebbe essere come questo puledro: il Signore deve regnare su di lui per liberarlo, e lui lo deve portare agli altri, con quella libertà che solo la signoria di Gesù può donarci.

Ecco allora un secondo consiglio per vivere bene questa Settimana santa e prepararci ad accogliere il dono di grazia che scaturirà dalla celebrazione del mistero pasquale. Proviamo a domandarci, ciascuno nella verità segreta del proprio cuore, da quali legami abbiamo bisogno di essere slegati. Da quali limiti e condizionamenti negativi abbiamo bisogno di essere salvati. Chiediamoci quali siano le paure che maggiormente ci condizionano, i pregiudizi e i falsi modi di pensare che deformano il nostro sguardo e avvelenano le nostre parole; quali i sentimenti negativi che intristiscono, quali i peccati che ci paralizzano e ci bloccano, impedendoci di effettuare quelle scelte o di compiere quei gesti che pure desidereremmo attuare nella nostra vita e per gli altri.

Tutti noi abbiamo dei legami che ci serrano, ci stringono, ci impediscono di essere davvero chi desidereremmo essere. Solo Gesù può dire, come ha ordinato ai discepoli riguardo a quel puledro: «Slegatelo!». Lasciamo che questa parola di Gesù risuoni nella nostra vita, che questo suo imperativo ci liberi davvero e ci salvi.

Abbiamo vissuto il nostro cammino quaresimale nella luce di una parola importante nel vocabolario dell’esperienza cristiana: la parola conversione. All’inizio del nostro cammino verso la Pasqua, nel mercoledì delle ceneri, è stata ripetuta su ciascuno di noi la parola che Gesù pronuncia all’inizio della sua predicazione: «Convertitevi e credete al Vangelo». Tutti noi abbiamo bisogno di vivere un sincero cammino di conversione, ma al tempo stesso dobbiamo riconoscere che la conversione non basta, perché confidando soltanto nelle nostre forze e nel nostro impegno, nei nostri sforzi e nelle nostre risorse, non riusciamo davvero a convertirci.

Il nostro impegno ci sembra vano, non riusciamo a godere dei suoi frutti. La conversione da sola non basta, abbiamo bisogno di liberazione, abbiamo bisogno di salvezza. Abbiamo bisogno cioè che qualcuno dica anche a noi, come ha ordinato per il puledro: «slegatelo!». Solo il Signore ci può liberare da quei legami che da soli non riusciamo a sciogliere. Il Signore ripeta anche su ciascuno di noi, in questi giorni santi, il suo imperativo liberante: «Slegatelo». E a noi venga concesso lo stesso atteggiamento docile di quel puledro: l’atteggiamento di chi consente al Signore di salire sul proprio dorso, e lui ci sale come il primo, e il solo, che può davvero liberarci e domarci: ci libera da tante false signorie che ci schiavizzano con le loro illusorie promesse, e ci doma, consentendoci di abitare quella libertà che soltanto la sua signoria realizza in noi.

Il Signore si è lasciato legare alla Croce, addirittura si è lasciato inchiodare al suo legno, perché tutti noi fossimo liberati e sciolti da tutto ciò che ci lega, impedendoci di camminare sulle vie della libertà e della vita. Le vie che conducono a Gerusalemme, alla Gerusalemme del cielo.