Prima omelia dell’abate Luca dopo la Benedizione abbaziale

Prima omelia dopo la Benedizione Abbaziale Abate di Montecassino dom Luca Fallica

Domenica 14 maggio l’abate Luca ha presieduto la Celebrazione Eucaristica alle 10.30, la prima dopo la Benedizione abbaziale di sabato 13 maggio.

Di seguito il testo integrale della sua omelia

VI Domenica di Pasqua – anno A
14 maggio 2023

Letture: At 8,5-8.14-17; Sal 65; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21

In queste domeniche del tempo pasquale, che ci stanno conducendo verso la celebrazione della Pentecoste, la liturgia torna a farci ascoltare i discorsi di addio nel Vangelo di Giovanni. Vale a dire quelle parole che Gesù ha pronunciato nell’imminenza del suo arresto, della sua passione e della sua morte. Abbiamo così l’impressione di essere riportati all’indietro, a ciò che precede la pasqua di Gesù, la sua morte e la sua risurrezione. In realtà, a ben guardare, la liturgia non ci fa ritornare al passato, al contrario ci proietta in avanti, verso il domani. Se infatti ascoltiamo con attenzione le parole che Gesù pronuncia nel Vangelo di Giovanni, scopriamo che i verbi sono spesso al futuro e sono ricolmi di molte promesse.

Durante i discorsi della cena Gesù fa molteplici promesse ai suoi discepoli: promette loro che lo incontreranno di nuovo e in modo nuovo, che saranno custoditi nel suo amore. Promette loro la gioia, la pace. Soprattutto promette loro il dono dello Spirito Santo. E per i discepoli incontrare il Risorto dopo il distacco doloroso della sua morte significherà anche questo: riconoscere e accogliere il compiersi di tutte le sue promesse.

Nei racconti pasquali, che abbiamo ascoltato nella domenica di Pasqua e nell’Ottava, il Risorto dona infatti alla comunità dei discepoli la sua gioia, la sua pace, il suo amore, il suo Spirito. Anche per noi, oggi, incontrare il Risorto significa riconoscere e gustare che le sue promesse si stanno compiendo nella nostra vita e nella storia del mondo. Si stanno compiendo, non sono ancora pienamente compiute, ma nella vita e nella storia è presente questa forza, questa energia.

È presente il Risorto, è presente lo Spirito, è presente una promessa di vita e di benedizione di cui possiamo attendere con gioia, con speranza, con amore la piena e definitiva realizzazione.

Nella pagina di Giovanni che abbiamo appena ascoltato, promettendo il dono dello Spirito Santo Gesù dichiara:

Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre (Gv 14,16).

Per sempre: questa espressione temporale, nell’originale greco nel quale l’evangelista scrive, ha una sfumatura significativa, che la nostra traduzione italiana non riesce a rendere bene. Più esattamente Gesù promette: lo Spirito Santo, il Paraclito, rimarrà con voi «fino al compimento eterno». Ecco la promessa di Gesù: lo Spirito rimane con noi per condurre progressivamente la nostra vita in un compimento pieno, in una pienezza di risurrezione, di vita, di gioia, di amore. Celebrare la Pasqua ha per noi questo significato: riconoscere che la nostra esistenza e tutta la storia sono dinamicamente inserite in questo cammino spirituale che pian piano le conduce nella piena realizzazione di tutte le promesse di Gesù. Ecco perché è importante in questo tempo pasquale riascoltare, come la liturgia ci fa fare, ciò che Gesù promette prima della sua passione.

Riascoltando quelle promesse siamo invitati a riconoscere come adesso, qui e ora, la nostra vita, anche se non è ancora stata del tutto liberata dal male, dalla sofferenza, dal pianto, è però dentro questo compimento. In noi lo Spirito sta compiendo le promesse di Gesù e noi possiamo attendere con fiducia la loro piena e definitiva realizzazione. In questo modo possiamo davvero incontrare il Risorto nella nostra esistenza: dando fiducia alla sua parola, credendo nelle sue promesse e vivendo nell’attesa della loro realizzazione, per noi e per tutti.

Sono tre in particolare le promesse di cui oggi le letture ci parlano: la gioia, la speranza, l’amore. Di gioia si parla nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli. Grazie all’azione di Filippo, uno dei sette, «ci fu grande gioia in quella città» (At 8,8). Così scrive Luca, parlando di una città della Samaria nella quale Filippo annuncia il Vangelo. A testimoniare la nostra speranza ci sollecita l’apostolo Pietro, nella seconda lettura: «Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).

E sulla qualità dell’amore torna a insistere Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti… Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14,15.21).

La gioia nasce dal contemplare i segni della presenza del Risorto in mezzo a noi, che sono sempre segni di liberazione dal male, di consolazione, di misericordia. Negli Atti le folle gioiscono dopo aver prestato attenzione alle parole di Filippo e vedendo i segni che egli compiva. Anche oggi la gioia nasce ogni volta che la parola di Dio è non solo annunciata, ma è accompagnata, è resa vera e credibile da una vita coerente, da opere e gesti compiuti nel nome del vangelo.

Questa gioia non ci deve chiudere in noi stessi, in una felicità appagante e appagata, ma deve tradursi in testimonianza. Deve soprattutto diventare motivo di speranza per molti altri. Come scrive san Pietro, occorre sempre essere pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi. Noi attendiamo e speriamo nel compimento di tutte le promesse di Dio, ma di questa speranza dobbiamo rendere ragione perché molti altri possano sperare come noi, insieme a noi.

Occorre essere uomini e donne di speranza. Il che non significa essere ingenui, ottimisti, sognatori o venditori di illusioni: significa aiutare le persone ad aprire gli occhi per discernere i segni di vita nuova che il Signore fa sempre sorgere là dove i nostri sguardi malati non riescono a vedere altro se non il dilagare del male. Sperare significa anche attendere, aspettare. Aspettare è un verbo che deriva dal latino aspicere, che significa ‘guardare’. La speranza ci dona sempre uno sguardo diverso.

E la gioia e la speranza sono autentiche quando vengono generate, sostenute, e ci conducono nell’amore vero. Ed è l’amore, ci dice Gesù, di chi accoglie e osserva i suoi comandamenti. Forse possiamo intendere meglio: di chi accoglie e custodisce i sui comandamenti, le sue parole, le sue promesse. Non si tratta tanto di osservare una legge o una norma, ma di accogliere e custodire una parola, una promessa. È ciò che accade al seme quando è accolto e custodito dal terreno buono: pian piano porta il suo frutto. Così è la parola di Gesù: se l’accogliamo e la custodiamo nel terreno buono del nostro cuore, porta il suo frutto. Soprattutto quel frutto di cui ci parla oggi la liturgia della Parola: il frutto della gioia, il frutto della speranza, il frutto dell’amore.