Viviamo la Santa Pasqua 2024 con le parole dell’abate di Montecassino, dom Luca Fallica

Domenica di Pasqua – Messa del giorno
31 marzo 2024

Letture: At 10,34a.37-23; Sal 117; 1Cor 5,6-8; Gv 20,1-9

Nella celebrazione del venerdì santo ho ricordato la grande promessa di Gesù che risuona nel Vangelo secondo Giovanni: «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Per l’evangelista, l’immagine dell’innalzamento racchiude in sé l’intero mistero pasquale di morte e di risurrezione. Il Signore Gesù è innalzato sulla croce ma nello stesso tempo è innalzato nella gloria del Padre. È umiliato nella morte e glorificato nella risurrezione, e in questo modo ci attira a sé, per rendere partecipi anche noi del suo movimento, del suo passaggio pasquale. Le nostre umiliazioni e le nostre morti, anche quelle più quotidiane, entrano nel suo movimento di risurrezione e di glorificazione. E così ritroviamo la via, lasciandoci attrarre da colui che ha rivelato di essere la Via, la Verità e la Vita. Come abbiamo ascoltato nel Vangelo di questa domenica di Pasqua, nel primo giorno della settimana, il giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si reca nel giardino dove era stato sepolto Gesù e qui incontra il Risorto. Maria è come la sposa del Cantico che ritrova il suo amato, dopo che era scomparso, e lo ritrova proprio in un giardino. Nel racconto dei Sinottici ci sono più donne che si recano al sepolcro, in Giovanni c’è solo Maria di Magdala, perché lei ci rappresenta tutti. Ora Gesù, in questo giardino nuovo, asciuga le lacrime non solo di Maria, ma le lacrime di noi tutti. Lacrime perché lo abbiamo perso, ma perdendo lui ci siamo persi anche noi. Come afferma il quarto canto del servo sofferente di Isaia – è un testo che abbiamo ascoltato nel venerdì santo – «noi tutti eravamo sperduti come un gregge, / ognuno di noi seguiva la sua strada» (Is 53,6). Non solo lo abbiamo perduto, come la donna del Cantico, ma ci siamo smarriti anche noi, ed è lui che è venuto a cercarci, a trovarci, a ricondurci nel giardino della vita, mentre vagavamo nel deserto delle nostre solitudini.

Ci siamo smarriti, ma lui è venuto ad attrarci tutti a sé. E il racconto di Pasqua di Giovanni, come anche il racconto della passione, è il racconto di una grande attrazione. Tutti siamo attratti da colui che è stato elevato da terra, che è stato innalzato sulla croce, e in questa domenica di Pasqua ogni anno questo vangelo di Giovanni ci invita a confrontarci con l’esperienza di tre personaggi che vengono attratti verso il sepolcro: Maria di Magdala, Pietro, il discepolo che Gesù amava. Ognuno dei tre ha qualcosa da consegnare alla nostra fede. Maria è colei che va al sepolcro nella gratuità di un amore che sa giocare d’anticipo. Anticipa anche il giorno: è ancora buio, ma lei è già in movimento, perché è la luce del suo amore che la rischiara, la illumina, la sospinge. Va a mani vuote, non ha con sé gli oli profumati e gli altri unguenti, o la mirra, come accade alle donne dei racconti sinottici. Non ce ne è bisogno, perché nel Vangelo di Giovanni Gesù è stato già unto per la sepoltura da Maria di Betania, sei giorni prima della Pasqua, e la mistura di mirra e aloe l’hanno già portata in quantità spropositata (ben tenta chili!) Giuseppe e Nicodemo. Maria va con le mani vuote, ricca soltanto del suo amore, che la lega ancora a Gesù, anche se ai suoi occhi è ormai deposto, privo di vita, in un luogo di morte. Non deve fare nulla per lui, neppure ungerlo per la sepoltura. Ma è come la donna del Cantico, ricolma di un amore che è più forte della morte. Neppure le grandi acque possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo (cf. Ct 8,7), Neppure le acque della morte. E sarà l’amore di Maria, questo amore che la spinge a mani nude e vuote, pronte a ricevere più che a dare, a consentirle di riconoscere che le acque della morte non hanno potuto spegnere neppure l’amore di Gesù.

Maria gioca d’anticipo, precorre l’alba, sveglia l’aurora, come ci invitano a fare i salmi, mentre Pietro è colui che vorrebbe farlo, ma non ci riesce. Corre, ma arriva dopo l’altro discepolo; vede, ma non riesce a comprendere subito quanto accaduto. Pietro, nel IV Vangelo, è il discepolo che deve seguire, ma dopo, più tardi. Gesù glielo aveva annunciato durante l’ultima cena: mi seguirai più tardi. E questo consegna Pietro a una grande pazienza. Lui che è irruente, generoso, al punto da finire spesso fuori misura, lui che vorrebbe dare la vita per il suo maestro e Signore ma poi lo rinnega, e adesso non riesce neppure a capire subito quello che accade… ecco Pietro è colui che ci insegna ad accettare i nostri limiti come lui ha dovuto accogliere i suoi, che ci educa alla difficile arte della pazienza, prima di tutto con se stessi, che ci mostra come accettare tempi che non sono quelli che vorremmo. Ed è consolante che Gesù abbia affidato proprio a lui la responsabilità di pascere il gregge. A lui che deve imparare a farsi discepolo, a seguire non solo Gesù, ma anche i suoi compagni di fede, come Maria di Magdala, dalla quale riceve l’annuncio pasquale, come il discepolo amato, che arriva sempre prima di lui e che Pietro deve imparare ad ascoltare, a seguire.

Il discepolo amato, infine, ha molto da insegnare non solo a Pietro, ma a ciascuno di noi. Egli giunge per primo al sepolcro, ma non entra dentro. Si china e osserva dall’esterno, ma non entra. Certo, ha rispetto di Pietro, che è più anziano, lo attende. O forse semplicemente esita a entrare nello spazio della morte, ha qualche timore nel farlo, tanto più che quei teli posati là, afflosciati, perché non c’è più il corpo che avvolgevano, evocano un mistero che né lui né noi riusciamo subito ad afferrare e a comprendere. Vede, esita, si interroga, ma non entra. Entra dopo Pietro, e allora vede e crede, ma quando è dentro, non finché rimane fuori. Per comprendere chi è Gesù e per comprendere il mistero della sua Pasqua, della sua risurrezione, non basta osservare da lontano, dall’esterno, occorre entrare dentro, stare nel sepolcro, immedesimarsi in qualche modo in quel corpo privo di vita che vi è stato deposto. Solo allora, rimanendo dentro, le Scritture parlano, ci illuminano, i segni posso essere decifrati, interpretati, la tomba vuota diventa segno non di un’assenza, ma di una presenza, che inizia a scaldarti il cuore. Stando dentro, intuisci, percepisci, che la vita del Risorto è già dentro di te. Maria lo riconoscerà quando lo vedrà e si sentirà chiamata per nome. Questo discepolo, che sa rimanere nell’amore, non ha bisogno neppure di questi segni; percepisce il Risorto dentro di sé, in un’esperienza segreta, intima. Probabilmente questo discepolo senza nome è lo stesso discepolo anonimo che all’inizio del Vangelo, in compagnia di Andrea, aveva iniziato a seguire Gesù, e gli aveva domandato «Maestro, dove dimori?» ed era rimasto qualche ora nella sua casa. Ma adesso, entrato nel sepolcro, lo scopre vuoto: il Signore non abita più lì, così come non abita più in nessuna casa terrena. Abita ora nella sua vita, nel suo cuore, nel segreto della sua esistenza. Si compie per lui quello che Gesù aveva promesso a Giuda e agli altri discepoli nell’ultima cena: «Se uno mi ama, osserverà la mia Parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Signore dove dimori? Dimoro in te, risponde Gesù a questo discepolo e a ognuno di noi. Dimora in noi, però, non come qualcuno che dobbiamo custodire gelosamente soltanto per noi stessi. Dimora in noi affinché noi possiamo annunciarlo ad altri, farlo conoscere, testimoniare quanto grande sia la gioia di incontrarlo vivente nella propria esistenza. Soltanto il Risorto, come fa con Maria di Magdala, può davvero asciugare le nostre lacrime e colmare la nostra sete, saziare la nostra ricerca e il nostro desiderio. E come a Maria, il Risorto dice anche a ciascuno di noi: «Non mi trattenere, ma va’ dai miei fratelli», e anche noi, come Maria, dobbiamo essere pronti ad annunciare ai fratelli: «Ho visto il Signore».